Giobbe è stato letto, innanzitutto, come un uomo malato, malato di disperazione.
Perché la sofferenza? Quale cura per la sofferenza? Quale salute?
Nello spettacolo, Giobbe giace sotto un cielo sordo, senza speranza. Mangiato dall’angoscia, dalla rabbia, dallo sdegno.
Insieme a Giobbe, un ragazzo e un uomo. Nessuno dei due accetta la sua condizione. La sofferenza dell’uomo è vista da loro, innanzitutto, come errore. E la salute, conseguentemente, è vista come dovere.
Il ragazzo è vestito da Arlecchino. È un illusionista e propone a Giobbe la cura dell’artificio. Dipinge di cielo la sua casa malata; alleggerisce i suoi passi, distende il suo pensiero.
L’uomo è vestito da beduino. È l’avvocato di Dio: accusa Giobbe e vuole che si riconosca responsabile di tutta la propria sofferenza (“chi semina miseria, sempre miseria mieterà” – da cui: chi vive nella pena, senza dubbio è colpevole).
In questo deserto di umanità Giobbe si pone come la voce di una fede folle che nessuna catastrofe può abbattere.
L’azione è la ripetizione – disperata e disperante – di una sequenza di azioni: il controllo della salute e la vestizione (a casa), la preghiera (al tempio), il confronto con il passato, con la memoria e il saluto ai morti (al cimitero), la televisione – le notizie – dal mondo e il sonno (a casa).
Ho affidato il ruolo di Giobbe a Paolo Musio, il ruolo del beduino a Francesco Sferrazza Papa e il ruolo di Arlecchino a Flavio Dolcetta.